Oh Artemisia, coraggio! – Una riflessione in occasione della giornata contro la violenza sulle donne
Sembra che Van Gogh soffrisse di porfiria acuta intermittente, forse anche di bipolarismo, aggravato da disturbo borderline. El Greco era schizofrenico e astigmatico. Cézanne aveva disturbi oculari e soffriva di sindrome ossessiva. Monet progressivamente cieco. Beethoven progressivamente sordo. Artemisia Gentileschi è stata stuprata.
Da qui, la loro arte. O anche solo più fascino, per la loro arte. Da qui, una ricerca ossessiva da parte di molti al dettaglio, al soggetto, al tratto che ci può restituire lo schizofrenico, l’ossessivo, il cieco, la stuprata, in modo spettacolare. Ricerca parimenti patologica, da un punto di vista sociale e intellettuale.
L’accostamento del caso di Artemisia a quelli di Van Gogh, Cézanne, El Greco e altri stride per due ragioni: la prima è che questi sono già stati scagionati dal luogo comune dell’artista peculiare poiché menomato o mentalmente disturbato – almeno da un punto di vista teorico (in particolare fenomenologico e gestaltico). Nonostante ciò molte pubblicazioni ancora oggi si ostinano a trovare nuove e inutili conferme a favore di simili ipotesi, avvallando curatele che purtroppo hanno ancora ampio spazio nella narrazione popolare. Al contrario, nessuno aveva mai discusso tanto precisamente o sfacciatamente la figura della Gentileschi come artista peculiare poiché vittima di stupro. Almeno non finora.
In secondo luogo, nonostante la risposta del pubblico sia simile, rimane una differenza evidente tra la condizione di Van Gogh e degli altri rispetto a quella della Gentileschi: gli uni sono vittime della vita, del caso, l’altra è vittima di violenza sessuale e di genere in senso lato.
Eppure, in ambito italiano, la narrazione recente su Artemisia Gentileschi insiste particolarmente su tale aspetto del suo vissuto e il caso che ha dato maggiormente da riflettere è avvenuto proprio nei primi mesi del 2024, in riferimento alla mostra “Artemisia. Coraggio e Passione”, tenutasi dal 16 novembre 2023 all’1 aprile 2024 al Palazzo Ducale di Genova. Un gruppo di studentesse di storia dell’arte dell’università di Genova, poi in concerto con diverse associazioni a sostegno della parità di genere, hanno additato la curatela di Palazzo Ducale come offensiva, eccessiva e manipolatoria. Corre voce che a breve la mostra verrà ripresentata a Napoli, sempre organizzata dall’azienda Arthemisia, che tra le varie attività propone le cosiddette “Grandi mostre”, spesso controverse e poco apprezzate dalla critica, ma comunque diventate molto popolari grazie al forte marketing e all’attrattiva attentamente studiata delle proposte.
Sorgono spontaneamente due serie di problemi:
Invece del disturbato mentale o, in questo caso, della stuprata, non dovrebbe piuttosto interessarci una restituzione dell’artista? Non dovrebbe interessarci la loro arte, essendo gli individui ormai morti e sepolti da tempo? Non dovrebbe, in generale, interessarci una restituzione dell’umanità e della sua espressione creativa da conservare in valore, piuttosto che vissuti condizionati, sia storicamente, sia biologicamente, da un tempo che non ci appartiene più e da corpi il cui bios si è ormai da tempo rimescolato alla terra? E, in particolare, come mai la questione è ancor più evidente quando poggia su un contesto che riguarda le differenze e la parità di genere, il femminismo e la sessualizzazione?
Da un altro punto di vista, invece, perché il vissuto degli artisti, a partire da quello corporeo, ci interessa così morbosamente e ci appare addirittura rilevante da un punto di vista storico-artistico, come anche umano? E invece, quale, o quali realtà corporee ci riguardano davvero nel rapporto con le opere d’arte? Quale tipo di sessualità viene messa in discussione?
L’articolo non ambisce a risposte, ma, analizzando e decostruendo la “tesi biografica”, tenta di suggerire alcune riflessioni in merito al caso presentato.
Artemisia. Coraggio e passione?
Prima di tutto, chi era Artemisia? Figlia primogenita (1593-1654 ca) del pittore romano Orazio Gentileschi (1563-1639), rimane orfana di madre a 12 anni, inizia a dipingere sotto la guida paterna. Il padre si accorge presto del suo talento e la introduce nel settore, procurandole probabilmente i primi lavori quando era ancora giovanissima: sappiamo che la considerasse pienamente formata e competitiva già a 17 anni.
Un amico e collaboratore del padre, il pittore Agostino Tassi (1580-1644), la violenta e non mantiene la promessa di un matrimonio che nel Seicento sarebbe stato considerato riparatore. Per questo Orazio lo denuncia alla Chiesa e ne segue un processo. Alla ragazza vengono inflitte tremende torture fisiche e psicologiche per provare l’autenticità della sua testimonianza, prassi giuridica tipica dell’epoca soprattutto nei confronti di alcune categorie, tra cui le donne. Intanto, l’accusato reperisce testimonianze per tentare di dimostrare la promiscuità della ragazza, cosa che, secondo la legge dell’epoca, lo avrebbe scagionato. Il processo conferma infine la colpa del Tassi, condannandolo prima a morte, poi all’esilio, pena per altro mai effettivamente concretizzata. Gli atti del processo sono giunti fino ai nostri giorni, il che colpisce particolarmente, considerata l’epoca a cui risalgono.
Artemisia dopo il processo si distacca dal padre, vista l’epoca e l’età, sposandosi con tale Schiattesi e così uscita di casa, da donna adulta e indipendente, inizia una florida carriera nel mondo dell’arte. Inizialmente lavora presso la corte medicea e il contesto fiorentino, poi si muove in ambito veneziano e genovese. Successivamente ritornerà per un periodo anche a Roma, raggiungerà il padre a Londra, e concluderà la sua carriera e la sua vita a Napoli.
Il primo storico dell’arte a renderle omaggio e studiarne la figura insieme a quella del padre fu Roberto Longhi (1890-1970). Intellettuale ancora influentissimo, egli “riscoprì” al principio della propria carriera il Caravaggio, valorizzando l’arte italiana successiva al periodo rinascimentale, prima di lui ritenuta apice e termine ultimo della grande pittura italiana. Sua moglie, Anna Banti (1895-1995), scriverà invece un romanzo sulla Gentileschi, avviandone in parte la fortuna popolare. Del catalogo di Artemisia sono oggi particolarmente conosciuti e diffusi soggetti come Giuditta e Oloferne (i.e.. 1613-14, Galleria degli Uffizi, Firenze; 1612-13 Museo nazionale di Capodimonte), Susanna e i Vecchioni (i.e.. 1622, Burghley House Collection; 1610 Kunstsammlungen Graf von Schönborn, Pommersfelden), Cleopatra (1633-35 ca, Collezione privata, Roma), Lucrezia (1627 Getty Museum, Los Angeles; 1645-50 Neues Palais, Potsdam), Danae (1613, Saint Louis art Museum), la Maddalena Penitente (i.e. 1630-35, Collezione privata) e gli autoritratti.
Nei recenti studi sulla Gentileschi e in particolare nella mostra genovese è frequentemente sottolineato il legame tra la sua biografia e la forte espressività dei soggetti appena citati. Artemisia, dunque, viene vista come protagonista del panorama artistico, oggi in quanto prima femminista della storia, ben consapevole della propria condizione di donna come sembra emergere da alcuni suoi scritti, e del suo tempo grazie al fascino da un lato femminile, dall’altro dovuto al suo cosiddetto coraggio non canonico.
Nelle Giuditta, specialmente, sembra essere ritratta una donna con determinazione e potenza superiore in primo luogo a Oloferne, che soccombe crudemente alla sua spada, in secondo luogo allo stesso soggetto raffigurato da mani maschili; in queste opere così si leggono delle possibili sue proiezioni psicanalitiche e una forma di vendetta. Inoltre, si ipotizza che i committenti trovassero i soggetti femminili e i nudi dipinti da lei più erotici rispetto a quelli degli artisti maschi. Si pensa anche che il numero consistente di autoritratti sia dovuto in parte al costo elevato delle modelle, ma altresì al fatto che Artemisia fosse considerata una donna avvenente, o comunque una figura di fascino, che sappiamo valorizzasse ella stessa con un lussuoso guardaroba, acquistato grazie ai notevoli guadagni ottenuti.
Di qui la sua grande fortuna in vita e oltre, una volta riscoperta dal Longhi, particolarmente in auge nei momenti in cui il discorso femminista si fa più rilevante, come è avvenuto di recente. È questa la lettura condivisa e proposta anche da certi ambienti che hanno come obiettivo il sostegno al mondo femminile e fomentata con particolare morbosità da qualche sedicente critico e dai curatori e dagli organizzatori della mostra a Palazzo Ducale, stando alle restituzioni di chi ha protestato. Tra questi c’è chi ha sostenuto, in contesti di volgare ironia, che la figura realmente vittupperata oltre misura sia quella del pur bravo Agostino Tassi, vittima di mero istinto e della successione degli eventi, che dobbiamo in qualche modo ringraziare per l’input emotivo ed espressivo donato alla pittrice – la quale a questo punto sarebbe da meglio definire “pittore caravaggesco” avendo raggiunto l’assoluta parità con il maschio.
On doubte
Tali congetture, ad ogni modo, non danno alcuna restituzione positiva dell’opera artistica di Artemisia; non è possibile concludere semplicemente che la sua pittura fosse un fenomeno di violenza – subita e repressa, quindi convogliata – e questo tipo di tesi non ha davvero nulla da dire all’accorto e men che meno allo storico dell’arte. Se si tratta di violenza di genere, inoltre, la situazione artistica dovrebbe essere a rigor di logica ribaltata: avremmo in senso storicamente decrescente molte più pittrici note che pittori noti, ma basta aprire un manuale da liceo o una visita in qualsiasi pinacoteca per rendersi conto del contrario, per quanto la letteratura specializzata sia a conoscenza di numerose pittrici appartenenti a diverse epoche.
Verrebbe da pensare che questo tipo di considerazione sorga da coloro che hanno posto troppa enfasi sull’altrui psicologia e troppa poca su personali insicurezze o timori – magari della perdita di un certo tipo di potere, magari fino a proiettarsi sulla figura del bravissimo e <vittuperato> Agostino Tassi, di fatto comunque ben presente ed elogiato per la sua abilità pittorica in mostra. Così però si procederebbe con lo stesso ragionamento di queste persone e l’errore sarebbe duplice: il considerarsi interpreti in una disciplina che invece richiede competenze professionali e, anche avendole, dimenticare che la psicologia è innanzitutto consapevolezza e disciplina lontana oltre duecento anni da Artemisia.
È inoltre fuori luogo avere pretese psicologistiche in un contesto di analisi storico-artistica, anche quando di ampio respiro e volta a considerazioni valoriali e umane legittimamente legate all’espressione artistica. D’altro canto la psicologia è una scienza non interessata a catene di necessità causali, bensì di possibilità motivazionali; una scienza che vede le condizioni date come elementi che non impongono alcun atto o gesto, ma che si possono riscontrare in tutti gli atti e i gesti nel loro complesso. In particolare la corrente di derivazione freudiana ricerca nel passato significati futuri e nel futuro risignificazioni del passato. Non si può essere altro da ciò che si è. La libertà, così pensata in modo concreto, è sempre posta in relazione a dei dati dove i valori assegnati e il gesto incarnato sono creativa ripetizione del sé, retrospettivamente fedeli ad esso.
È certamente possibile che, sulla base della propria impattante esperienza, non solo contestualmente allo stupro, ma di donna nella società del XVII secolo, Artemisia sia riuscita a sviluppare una propria formula artistica e una versione di rilievo del caravaggismo, ma se lasciata in pace al lavoro, in fondo, dobbiamo concludere che potesse guardare alla condizione umana o spirituale e dipingere i suoi soggetti come solo un essere umano è in grado di fare nella propria singolarità. I “suoi” soggetti sono anzitutto ereditati dal periodo di formazione e dai modelli di riferimento e, se consideriamo propriamente il contesto storico, sono prodotti e offerti sulla base di una domanda diffusa dell’epoca; gli stessi sono difatti numerosamente realizzati anche da colleghi maschi.
C’è di più: a ben guardare il catalogo disponibile e ricostruito, numerosi sono i ritratti – come il Ritratto di gonfaloniere (1622, Palazzo d’Accursio, Bologna) – a soggetti come il David con la testa di Golia (1639 ca, Collezione privata, Uk), la Nascita di San Giovanni Battista (1635, Museo Nacional del Prado, Madrid), santi vari (es. San Gennaro nell’anfiteatro di Pozzuoli, 1635-37, Cattedrale di Pozzuoli, Napoli), Cristo benedicente (1624-25, Santi Ambrogio e Carlo, Roma) e altri soggetti che poco hanno a che fare con il tema diventato centrale nell’attuale narrazione su di lei.
Sembra dunque esserci una gran confusione, tale da contravvenire il buon senso e la storiografia artistica. Ci sono grandissime donne e uomini e piccolissimi uomini o donne. Ci sono stati, state e ce ne saranno. E così vale anche per il talento degli artisti. Non ha alcun senso che la questione si riduca a questa discussione. Che nell’arco della storia il genere femminile sia stato invece mortificato, con conseguenze negative a livello sociale nel suo intero, è un dato di fatto suggerito da buon senso e da esempi, purtroppo anche recentissimi. La parità umana è formalmente un diritto stipulato e imprescindibile, quella effettiva è spesso ancora ostacolata. In questo caso, in particolare, si è rivelata nella sua situazione complessa, finendo per far violenza postuma a un’artista seicentesca, e attuale all’arte.
Artemisia fu ed è una grande pittrice, ma pare ancora che, nella società che vede l’individualismo e l’affermazione personale come un valore, il suo essere riuscita a portare avanti i propri normalissimi interessi nonostante una situazione di svantaggio – dovuta a varie condizioni, di cui solo una parte è direttamente legata allo stupro, oltretutto da considerare in modo storicamente appropriato – è visto in maniera particolarmente eroica e come chiave di successo, in modo piuttosto anacronistico rispetto al contesto storico-artistico che davvero visse. Forse un successo da indagare in una donna? O forse solo un successo più affascinante, e magari per questo addirittura considerato ingiusto? Per vederci giusto, guardassimo le opere! Il perché Artemisia Gentileschi ebbe fortuna sia in vita sia oggi è, molto semplicemente, tutto interno al suo modo di dipingere, di concepire le sue tele, e al suo lavoro. In questo senso allora sì, la sua opera può comprendere una progettualità intelligente quanto istintiva che si può ritrovare nella sua biografia e persona, ovviamente legate in modo intrinseco anche al suo corpo e alla sua esperienza.
Corpo ed esperienza: strumenti di percezione del mondo e di restituzione espressiva. Non parleremmo di quelli di Artemisia se non avessimo la sua arte. Strumenti dunque necessari, ma non causalmente sufficienti a farne una grande pittrice. Ella coglie elementi che farà personali non solo nel Caravaggio, ma nell’ampia scena artistica che ha modo di osservare e sperimentare nella sua formazione e carriera. Elementi che rilancia altrettanto nella nuova tendenza seicentesca, animando con il suo lavoro quella forza artistica al tempo ancora innovativa, in alcuni ambienti persino sgradita se non osteggiata, diffondendola e inspessendo la pelle di quel nuovo stile. Lo stesso Roberto Longhi, il quale pur non risparmiandosi commenti impropri in merito e in generale sulle donne, non considera i fatti biografici come rilevanti nella lettura artistica e la definirà: “nulla di meno che la fondatrice a Napoli del <<primitivismo caravaggesco>> cioè dello studio di valori delicati su cromatismi preziosi di floridezze seriche, dello studio d’interno quasi casalinghi traversati da lumi intimi e blandi, verso gli olandesi.”1
Dopotutto, nel saggio Gentileschi padre e figlia, egli scrive del Giuditta e Oloferne: “E si studiò infinitamente Artemisia di fare una grand’opera nella Giuditta che uccide, anzi che scanna Oloferne, in due esemplari grandi (Firenze e Napoli) […] Chi penserebbe infatti che sopra un lenzuolo studiato di candori ed ombre diacce degne d’un Vermeer a grandezza naturale, dovesse avvenire un macello così brutale ed efferato […]? Ma – vien voglia di dire -, ma questo è la donna terribile! Una donna ha dipinto tutto questo? Imploriamo la grazia.”2 E possiamo concedergliela, considerando che anche lui fu persona e corpo storici, e soprattutto che, pur lasciandosi scappare commenti sessisti, mette tra parentesi le sue opinioni: quando si tratta di indagare le opere e la maniera dell’artista lo fa in modo preciso e considerandola esclusivamente in quanto tale. Di più, sembra esortare tutt’ora il lettore quando dice in apertura alla sua analisi: “Sgombrato il terreno di queste cose tanto semplici, eppur tanto imbrogliate e fastidiose, vediamo di farci un’idea chiara di come venisse via via dipingendo la signorina Artemisia.”3
Coraggio, “signorina”!
Le stesse persone che puntano la narrazione sulla vita degli artisti, privandoli di quell’io che già ci hanno regalato dentro le loro opere – anche quando nelle migliori intenzioni pensassero di tender loro la mano – finiscono per prendersi non solo tutto il braccio, ma il corpo intero. Serve forse loro tutta quella eco di esistenza vestita di eternità, che solo le immagini dovrebbero avere, per poter così sostenere la proficua narrazione: “Caravaggio, l’eterno dannato”, “Artemisia, la vittima eroina”, eccetera. In questo modo delle immagini concrete aumentano di valore al passo con la loro narrazione. Gli occhiacci (questi sì, astigmatici) appiccicati al verso delle loro cornici le rendono capitale economico invece che culturale, magari avendo anche l’ardire di farlo passare per “lavoro” intellettuale e offerta pubblica. Abbiamo ricavato allora delle direzioni di intenzionalità che appaiono dubbie quando confrontate a un ragionato corpo di valori, strati di senso manipolati al punto che, percorrendo intenzioni slegate da quelle personali, risultano insensati.
È a questo punto fin deludente scrivere di certe affermazioni, perché prima che si faccia in tempo a pensare di scrivere qualcosa di intelligente, i fatti che le seguono sono talmente veloci, spicci e d’insulto a questa delicata facoltà che ne rimane irrimediabilmente delusa e svogliata. Ma – coraggio! – volgiamola ancora un attimo all’opera e ad Artemisia in quanto fenomeno che ci ri-guarda: visse una condizione per certi versi fuori dal normale al suo tempo, particolarmente fortunata per doti naturali e scaltrezza nel disporne. Possiamo certamente vedere la sua biografia in tutte le sue opere, come anche vedere infinite narrazioni alternative di uno stesso gesto violento, corpo o scena, le cui espressioni o i segni però, entrando in contatto con la nostra ricettività, assumono senso – doveroso ammetterlo – in funzione nostra solo in parte. La nostra parte per essere corretta e aggiungere qualcosa di realmente significativo dovrebbe rispettare anche il senso materiale già fissato, in quanto, appunto, lo riceviamo e ci guarda, altrimenti è pura fantasia manipolatoria. Il senso in potenza è sempre infinitamente alternativo, sempre altrove. Qui nasce il problema dell’interrogazione, che si rivolge dunque a noi, qui, dove possiamo cercare aiuto materiale solo nelle tele.
Tuttavia, tendiamo a venire a conoscenza prima dell’artista nella sua intera esistenza (quando si parla di figure storiche) e poi dei frammenti di questa che hanno dato vita alle singole opere, rischiando così di confonderci. Ragionando un poco ci si rende conto che Artemisia, nel momento in cui concepisce ed esegue le sue tele, non è l’Artemisia che conosciamo vissuta e morta e vista nel suo intero ormai chiuso del finito umano; è invece quella pittrice che è stata lì, in quel momento, che produsse ogni gesto come un grido primordiale che non si può sapere, nel momento in cui si produce, se diventerà linguaggio o quale tipo di discorso. Si può solo dire, si può solo fare. E capita a volte che qualcosa di più precisamente direzionato si apra infinitamente ai posteri.
In sintesi e per queste ragioni, la vita di un’artista di per sé non può istruire su nulla che riguardi effettivamente la sua arte, ma se sappiamo come interpretarla possiamo ritrovarvi tutto. Infatti, la vita si affaccia e si apre completamente all’opera nel momento della sua creazione. Impreparati ai movimenti e alle leggi interne di un caso così ancora misterioso a livello di studi e di catalogo, alcuni interpreti non hanno forse saputo capire le operazioni della Gentileschi, pigramente se non intenzionalmente ciechi al significato reale che è però tutto lì, nelle opere e nel loro magistrale ed eloquente silenzio.
Precisazioni metodologiche
Per approfondire le domande poste in apertura si è ritenuto potesse rendere un buon servizio la fenomenologia, quella linea di pensiero e metodo filosofico sviluppatosi a fine 1800 in ambito tedesco e che ha avuto grandissima importanza nel ‘900 francese fino ad oggi; pensiero che vede centrale proprio la descrizione dell’esperienza e il corpo per la costituzione e la conoscenza della realtà del mondo, che non si presenta oggettivamente, bensì come realtà organica e stratificata di senso, necessariamente legata a un leib (se leggiamo Husserl), a una chair (alla lettura di Merleau-Ponty, cui fa specificamente riferimento il presente articolo, in particolare al saggio “Le doubte de Cézanne”), ossia il corpo vivo, la carne viva, a un tempo esperita ed esperiente.
A questo metodo sono stati contestati filosoficamente molti limiti, osservati principalmente in merito alla pretesa antica di fondare la realtà su un qualche tipo di organizzazione e organicità che non sempre – forse quasi mai – corrispondono alla caoticità e insensatezza fattuale del mondo che prescinde dall’uomo e dal suo impulso antropocentrico. Eppure, sembra giustificato porre questi limiti tra parentesi essendo la nostra domanda non intenzionata ad alcuna fondazione di Realtà, ma relativa e specifica al campo umano e sociale e anzi, forse questi stessi suggeriscono che un’indagine siffatta non sia infondata, avendo come fine proprio una fondazione valoriale ed etica di ordine più equo e sensato nel campo che ci riguarda: il rispetto della vita umana, dei suoi diritti, dell’intelligenza creativa, dei suoi lasciti. Si è proceduto inizialmente tentando di descrivere il fenomeno sospendendo ogni forma di giudizio, per poi tentare di cogliere linee di intenzionalità e strati di senso.
Opere nel testo senza didascalia, in ordine:
Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1622, olio su tela, Galleria degli Uffizi
Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della pittura, 1638-39, olio su tela, Kensington Palace, Londra
Bibliografia e riferimenti:
M. Merleau-Ponty, Sens et non-sens, Paris, Nagel, 1948 (cap: Le doubte de Cézanne)
F. Granata, Il genio e la malattia: van Gogh, la porfiria e l’arte, dalla rivista Blister n.07 e pubblicato sul sito https://www.policlinico.mi.it/beniculturali/news/2019-10-10/1140/il-genio-e-la-malattia-van-gogh-la-porfiria-larte
D. Katz, Ma El Greco era davvero astigmatico? Con un ricordo di Rudolf Arnheim, a cura di Andrea Pinotti, Roma, Armando Editore, 2009
R. Longhi, Gentileschi padre e figlia, Milano, Abscondita, 2011
A. Banti, Artemisia, Verona, Arnaldo Mondadori Editore, 1965
https://palazzoducale.genova.it/mostra/artemisia-gentileschi/
https://www.nationalgallery.org.uk/paintings/artemisia-gentileschi