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Anora, la favola impossibile di Sean Baker, dall’indie alla nomination agli Oscar

di Nicola Vavassori

Già vincitore della Palma D’Oro a Cannes, cinque nomination ai Golden Globe e sei agli Oscar (tra cui quella a “miglior film”), Anora di Sean Baker è la sorpresa cinematografica dell’anno. Non stupisce il budget di 6 milioni di dollari, più che modesti per una pellicola indie, ma pochissimi per Hollywood. Dopotutto Baker viene dall’Olimpo delle produzioni a basso costo: il suo film più famoso, Tangerine (2015), era stato realizzato con soli 100 mila dollari e girato con un iphone (ne abbiamo parlato qui). Perciò ci sono pochi dubbi che Anora verrà ricordato accanto a titoli come Moonlight e Nomadland, che hanno trionfato nonostante il budget ridotto, alla faccia delle produzioni stellari.

Ma di che cosa parla Anora? E a cosa deve il suo successo indiscusso? Per capirlo basterebbe la scena iniziale: sulle note di Greatest Day” dei Take That, una carrellata laterale passa in rassegna le cabine di uno strip club, dove delle giovani spogliarelliste danzano sensuali sui completi eleganti di uomini d’affari di mezza età. Il contrasto comico tra l’ambiente del night e la musica emozionante, quasi epica, suggerisce fin da subito i temi portanti del film: da una parte ci sono uomini ricchi e potenti, talmente annoiati dalla propria vita da considerare una serata in uno strip come il loro “greatest day”; dall’altra parte ci sono donne bellissime che hanno tutto l’interesse del mondo nell’assecondare i desideri dei primi per spillargli quanti più soldi possibili. La contrapposizione tra i due mondi, che si fondono in un intreccio di corpi sotto le luci stroboscopiche, fa subito emergere una domanda che sarà il leitmotiv di tutto il film: in una situazione come questa, chi ha il controllo? L’uomo d’affari che strumentalizza un corpo femminile a colpi di banconote da 100? O la donna che lo seduce per invogliarlo a spendere sempre di più?

Anora, detta Ani, (Mikey Madison), è una spogliarellista brillante e sfrontata che vive con la sorella in un quartiere povero di Brooklyn. Dopo aver fatto colpo su un cliente del night, un ventenne russo di nome Vanya, Anora viene invitata a casa sua e scopre che il ragazzo è il figlio di un oligarca russo miliardario, e sta trascorrendo una “vacanza studio” in una villa lussuosissima a New York. Fiuta così l’opportunità per cambiare vita e decide di prestarsi per rapporti sessuali a pagamento con lui. Vanya (Mark Ėjdel’štejn) si rivela immediatamente un giovane immaturo e viziato, che trascorre le sue giornate tra alcol, droga e videogiochi, alla ricerca di un divertimento effimero per evadere – più avanti diventerà evidente – dalla pressione genitoriale. Il mondo di Vanya è fatto di amicizie di comodo e avventure kitsch che, nel loro aspetto grottesco, diventano del tutto realistiche. La monotonia cartoonesca della ricchezza senza limiti è messa a nudo nella sua natura transitoria e priva di classe, che trova la sua principale valvola di sfogo nel sesso. Ma Anora scende a patti in fretta con tutto questo e inizia a provare per l’ingenuità frivola del ragazzo una certa simpatia, che a volte sembra sfociare in un affetto quasi materno. Di contro, Vanya sembrerebbe sviluppare una vera e propria dipendenza affettiva per Anora e, dopo averla portata a Las Vegas, le chiede di sposarlo.

Anora

La proposta di matrimonio non piacerà alla famiglia di Vanya, che incarica i tre loschi tutori del giovane di sistemare la situazione e di riportare il ragazzo in Russia. Braccata da Igor, Garnick e Toros, Anora viene trascinata in un’odissea notturna lungo i quartieri più loschi di New York alla ricerca di Vanya, che si è dato alla fuga. Il frenetico viaggio di Anora, che ricorda quello delle protagoniste di Tangerine attraverso le sottoculture di Los Angeles, si compone di scene frenetiche e divertenti. I dialoghi vengono orchestrati in una coreografia caotica e confusionaria dove i personaggi si parlano sopra l’uno con l’altro: due o più discussioni corali si sovrappongono nello stesso momento, creando una mimesi del parlato eccezionale. Battute semplici o senza spessore diventano esilaranti grazie ai tempi comici della lingua russa, vera protagonista invisibile del film. Mentre i personaggi evolvono in continuazione, rivelando lati umani imprevedibili.

Così il film approda nella sua terza e ultima parte, dove il ritmo rallenta e i temi citati in apertura riemergono con forza. Anora è la prima a realizzare che alla domanda “chi ha il controllo?” non può che esserci una risposta. La ricchezza e la povertà si muovono su due sistemi di valori inconciliabili: per l’immaturità di Vanya, anche l’amore è un capriccio, mentre il sogno di una spogliarellista di fuggire con il figlio di un miliardario si rivela per quello che è, una fantasia irrealistica. Nella scena finale, che a Cannes si è conquistata 10 minuti di standing ovation, Anora ha occasione di riflettere sulla propria condizione: l’oggettificazione di sé come unico mezzo per inseguire le proprie ambizioni, e l’istintiva repulsione per qualsiasi atto di amore autentico, diventato per lei indistinguibile dalla violenza.

Con Anora, Sean Baker si conferma uno dei registi più audaci e necessari del cinema indipendente contemporaneo. Il suo sguardo, lucido e mai moralista, tratteggia un mondo in cui denaro e potere distorcono ogni relazione umana, lasciando ai personaggi, infine, solo l’illusione del controllo. Tra commedia e tragedia, il film riesce a far riflettere senza mai perdere ritmo e vitalità, consegnandoci una protagonista indimenticabile e un finale che lascia il segno. Se il cinema è anche un mezzo per smascherare le dinamiche di potere e desiderio, Anora lo fa con una precisione spietata, senza offrire soluzioni né illusioni di riscatto. Baker non si limita a raccontare un sogno che si infrange, ma ne mostra ogni frammento con lucidità, lasciando che siano i personaggi stessi a rivelare, nel loro tentativo di afferrare qualcosa che non gli appartiene, l’incolmabile distanza tra chi domina e chi si illude di poterlo fare.

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