Letteratura,  Racconti,  Testi

L’amore su Tinder – Un racconto di Vladislav Karaneuski

Sono felice. Anzi, in realtà, sono contento. Di solito in questi casi si dice sempre così per non risultare uno di quei personaggi beoti e ingenui tipo l’operaio che votava Berlusconi, il liberale per moda o l’elettore medio nel 2006 di Sinistra arcobaleno. Insomma, sia mai, sono contento. In ventiquattro anni di età debbo dire di essermi realizzato: parlo quattro lingue vive e qualcuna morta, sono laureato, ho visitato tanti posti tanto ormai da essere stanco di viaggiare, ho vissuto in quattro paesi diversi, non sono di destra, ho lo stesso shampoo da dieci anni, al gusto cetriolo. Bevo un bicchiere d’acqua ogni mattina prima di colazione perché incomincio già a pensare alla mia salute, il mio relatore di tesi mi dà del tu, so cucinare e porto sciarpe in cashmere d’inverno con uno stile molto invidiabile. Sono l’uomo che volevo essere.

Quando agli altri bambini chiedevano che cosa volessero fare da grandi, tutti rispondevano “il poliziotto”. Io invece che ero già allora politicizzato, e gli sbirri mi facevano ribrezzo, rispondevo che avrei voluto essere uno più a sinistra di un moderato di sinistra ma non così a sinistra da scadere nella zona riservata alla nostalgia dell’epos comunista: un passato assoluto e idilliaco, secondo me, mai esistito. Insomma, volevo essere un tizio con lo stesso shampoo al gusto cetriolo da dieci anni e sciarpe in cashmere di gran stile e buona fattura. Volevo essere contento.

Ma vedete, a voi voglio confessare la verità fino in fondo. Io non volevo essere contento, io volevo essere felice (senza dirlo naturalmente per le ragioni esposte poc’anzi.)

Da un po’ di tempo a questa parte, i miei pensieri si rivolgevano assiduamente e con una certa ossessività verso il seguente quesito: in che cosa consiste lo scarto tra la felicità e la contentezza? Insomma, che cosa mi restava da fare per essere compiutamente felice?

Per rispondere a questa domanda incominciai immediatamente a scandagliare e vagliare ogni piccolo aspetto della mia vita. Era forse lo shampoo al cetriolo? Forse sarei dovuto passare a quello miele e fragola, come mi avevano consigliato alla facoltà di lettere classiche, minacciando però così la mia virilità? No, sia mai: il cetriolo è un ortaggio austero, da vero vir romano.

Erano forse le sciarpe di cashmere, dovevo passare al sintetico? In realtà il motivo iniziale per cui incominciai a comprarle fu puramente pratico: proteggono di più dal freddo. Poi, il fatto che le portassi con stile fu solo una conseguenza notata in particolare dal mio gruppo di lettura di giovani lettori di centro-sinistra, arrabbiati ma moderatamente.

Continuai per giorni a ragionare con una dedizione indefessa arrivando ai deliri più sfrenati. E se mai avessi votato Berlusconi? Così sarei stato felice? Beh, in effetti nella canzoncina “meno male che Silvio c’è” tutti cantano felicemente. Forse erano dei veri elettori di Forza Italia e non aspiranti tronisti di Uomini e Donne o ex partecipanti ai noti bunga bunga.

Dopo settimane di solitudine estrema, di eremitaggio riflessivo comparabile alle analisi della sconfitta a cui mi avevano ben abituato i gruppi di sinistra ad ogni elezione, arrivai ad una conclusione. Io ero solo.

Ebbene sì, nonostante l’impeccabile portamento del cashmere, lo shampoo abitudinario, la laurea, le lingue e tanti altri magnifici aspetti della mia esistenza, io non avevo qualcun altro con cui spartirli.

Era forse questo lo scarto tra felicità e contentezza? Dovevo forse trovare la mia metà come Platone fa dire ad Aristofane nel Simposio. Mi serviva scoprirlo. Ora dovevo cercare una strategia per trovare una fanciulla che facesse al caso mio.

La strategia doveva essere innovativa, efficacie, intelligente, smart, e differente rispetto a quelle che avevo provato in precedenza, che infatti fallirono miseramente.

Questa volta, io, dinosauro moderato di sinistra, in un’epoca dove le relazioni sociali sono quasi scomparse e la poca attività sessuale dei giovani minaccia gravemente la futura stabilità del paese, avrei dovuto trovare una soluzione. E immaginate se avessi trovato un essere dal sesso opposto con cui figliare una schiera di elettori di sinistra e così risollevare le sorti della socialdemocrazia in Italia. Immaginate!  

Non mi restava dunque che uscire di casa e abbordare una donna in un bar. Capii quasi subito con un certo imbarazzo, al bar, che questo è il genere di strategie impiegate perlopiù nei film. La verità è che nella nostra epoca non lo fa più quasi nessuno. Le persone non si incontrano più per strada, nei bar, nei cinema, al supermercato: nella nostra epoca l’amore sboccia attraverso un intermediario tecnologico, un’applicazione; e nello specifico attraverso dei matches su Tinder. Io, in quanto progressista sentivo che dovevo seguire il progresso e affidarmi alla nuova tendenza dell’amore.

Allora, mi iscrissi a Tinder, misi qualche mia foto. Una col ritratto di Berliguer sullo sfondo, una abbracciando Elly Shlein, una in cui scelgo la sciarpa nel solito negozio in centro a Milano, e l’ultima, il pezzo forte, quella dove mi trovo sul palco dell’ultima festa dell’Unità a discutere della recente sconfitta della sinistra. Un profilo perfetto. Misi anche una descrizione: intellettuale di sinistra, europeista, progressista. Parlo quattro lingue, amo scoprire il mondo, ti va di venire con me alla prossima festa dell’Unità? Sesso e terza via (no, questo non l’ho scritto, ma l’ho pensato).

Dopo aver completato il profilo, mi sono guardato allo specchio e ho capito di essere divenuto un uomo pronto ad avere una compagna: il proverbiale uomo da sposare.

Ho adottato come primo approccio nell’utilizzo di Tinder la “modalità umiltà”. Mettevo like a qualsiasi profilo purché femminile. Devo ammettere che scrollando i vari profili mi sono ritrovato davanti a ragazze stranamente piacenti, talora addirittura un po’ fuori dalla mia portata. Ad esempio, Inga, studentessa svedese in Erasmus a Milano e modella di alta moda, molto alta, molto bella, di un’estetica venerea, quasi irreale. Il fatto che ci fossero anche delle ragazze così avvenenti su questo social di incontri mi faceva sperare bene, perché infatti se una ragazza come Inga aveva bisogno di Tinder per trovare l’amore, è perché evidentemente non riusciva a trovarlo nel mondo esterno. Allora ciò voleva dire che davvero ogni rapporto amoroso nella nostra epoca aveva bisogno dell’intermediazione informatica, e dunque io mi trovavo nel luogo giusto. E in fondo non mi pareva essere un dramma, come talora viene dipinto dall’opinione pubblica: l’amore continuava a sussistere, ma in forme diverse.

Un altro esempio, che cito solo perché ricorrente e dunque esemplificativo di quello che trovai sul social, è Gennara, estetista di Rozzano. La descrizione ve la cito pari pari: “sono qui e non so perché, in realtà non ci vorrei stare. Se sei più basso di 2 metri e 50 non sono per te. Le mie passioni sono: mangiare, portar fuori il cane e lanciare sassi negli stagni. Fammi ridere perché altrimenti non ti guardo nemmeno in faccia. Primo appuntamento da Cracco in Galleria e paghi tu”. Ecco, questa era la tipologia di profilo per cui, per certi versi, mi sono discostato dall’iniziale strategia “umiltà”.

La selva multiforme di Tinder, questa dimensione non catalogabile in una definizione unica perché troppo caotica, eterogenea, dispersiva mi si presentava davanti come una galassia in cui avrei dovuto trovare un principio ordinante che si basasse su criteri soggettivi e di gusto. E la facilità con cui il mezzo sembrava poter risolvere le questioni sociali più pressanti, attuali e condivise dai più, come la solitudine e la generale mancanza di amore del ventunesimo secolo, era strabiliante. Bastava solo qualche foto e qualche match e ognuno poteva facilmente accedere ai piaceri di Venere e la nebbia che sommergeva ogni vita di quest’epoca strana poteva trovare un suo colorito nuovo, fulgido e non più doloroso.

Tuttavia, non saprei spiegarne la ragione, ma la mia situazione era un po’ differente rispetto a quella che mi fu inizialmente proposta come normale. Io non ottenevo alcun match.

Al contempo, però, non volevo demordere. Ci voleva metodo e questa parola in greco vuole dire “dritta via”. Dovevo solo andare avanti e percorrerla fino in fondo.

Dopo due settimane di assiduo e infaticabile impegno e resistenza partigiana, ecco il mio primo match. Dovette sentirsi così Maximus Cunctator, Massimo il temporeggiatore, quando con la strategia del temporeggiamento sconfisse le truppe di Annibale, ribaltando l’esito della Seconda Guerra Punica. Il sentimento era il medesimo. L’essere dal sesso opposto si chiamava Lidia. La descrizione: “non vado coi fasci, sto aspettando la rivoluzione”.

Lidia, bastarono quelle due frasi per convincermi che fino ad allora ogni sospiro fu fatto invano ed ogni palpito che mi si agitava nel petto andava cercando un nome per queste strade, in questo tempo e in queste giornate, ed era il tuo.

Non potevo crederci, mi ero ormai già innamorato: il progresso esiste, errava il Leopardi a criticare le sorti magnifiche e progressive del positivismo. Avrei forse dovuto votare Berlusconi? Su questo mi ripromisi di ripensarci in un’altra occasione. Perché in quel momento doveva incominciare una nuova fase della mia strategia: la fase del corteggiamento. Ora, l’utilizzo di un medium intermediario rendeva questa procedura di certo più ardua, poiché a quel sistema sensoriale di per sé totalizzante, foriero dell’amour fou o capace di innescare il colpo di fulmine, si sostituiva un sistema semplificato, dotato solo di immagini e frasi ad effetto, slogan. L’amore nella nostra epoca è uno slogan pubblicitario e l’importante è apparire in quella pubblicità nel mondo-altro virtuale, dove la veloce caducità e obsolescenza rende la notorietà friabile e l’apparenza una veloce scomparsa.

La prima frase doveva essere uno slogan ad effetto. Non potevo certamente prendere gli slogan del centro-sinistra, perché fallimentari pure nel loro ambito, così optai di puntare tutta la posta in gioco su quell’area politica dalla quale mi ero sempre distanziato con zelo: l’area rivoluzionaria.

Rispolverando i grandi miti del comunismo, da Marx ad Angels, a Gramsci, fino a Stato e Rivoluzione di Lenin, ebbi in dono dall’Olimpo la formula da utilizzare:

“In questo momento, mentre ti scrivo, Lidia, ho letteralmente un Lenin appeso al muro con una bandiera dell’Urss che controlla che non ti scriva qualcosa di anche vagamente di destra. Fatta questa premessa ideologica. Hey, ciao, come va?”

Non ho davvero un quadro di Lenin in camera, in realtà ho un manifesto elettorale del PD dell’epoca di Renzi, l’epoca in cui c’era quella pubblicità di lui in bicicletta che quasi si faceva investire da un’auto solo per dire ai conducenti: “dai pensaci”.  Che elezioni rovinose. Ma poco importa, perché con Lidia in quella stanza avrei fatto l’amore e lei non si sarebbe nemmeno accorta di Renzi al posto di Lenin (come d’altronde gli elettori di sinistra per anni), ma avrebbe continuato a guardarmi negli occhi, premendo dolcemente il suo ventre contro il mio.

Continuammo a scriverci per giorni. Ero innamorato, ero giovane, stavo per farcela: finalmente ero a un passo dall’essere felice.

II

Erano ormai passati dei mesi dalla separazione con Alfredo e ci ho provato in ogni modo a dimenticarlo. Inizialmente andavo a letto con qualsiasi ragazzo mi capitasse di incontrare, per un senso quasi di ripicca, di ribellione verso il filo invisibile che sembrava ancora collegarmi a lui. Poi incominciai ad usare sostanze alteranti e psicotrope, soprattutto alcool e cannabis, abusandone per cercare di dimenticarlo. Tutto ciò in realtà mi faceva solo sentire peggio. Così mi limitai ad aspettare, a lasciare che le lancette dell’orologio scorressero e che il tempo passasse in fretta, impiegandolo in ciò che mi appariva utile alla mia vita, i miei studi in medicina. Ebbi ragione, solo il tempo poteva spezzare quei fili invisibili, e difatti, dopo un anno e mezzo, Alfredo e il pensiero di lui scomparvero. Ora ero libera: il fuoco che mi aveva bruciato per più di un anno aveva lasciato spazio al vuoto.

Purtroppo, però, dopo poco mi accorsi che non mi sentivo così bene. Ero libera ma ero vuota, avevo bisogno di qualcosa che mi riempisse.

Pensai che fosse ora di riprovare con l’amore, così tornai ad uscire, ad andare alle feste, e i pochi ragazzi con cui riuscivo a concludere qualcosa ogni tanto, o si rivelavano inetti e incapaci di arrivare al dunque, o erano dei totali casi umani, oppure, in minima parte, e lo dico con un certo rammarico perché almeno con loro vi fu una fetta di divertimento, dei casanova da una sola notte e via.

Insomma, dopo Alfredo non c’era più nulla. Io ero una giovane ventenne, studentessa di medicina, carina, intelligente, di sinistra e sapevo di avere tutte le carte in regola per ritrovare l’amore.

Lo dissi a me stessa fin dai primi tentativi alla ricerca di un uomo: solo come extrema ratio. Non avrei voluto usarlo per troppo tempo, ma valeva la pena provarlo. Ecco che una mattina mi scaricai Tinder. Misi tre foto, una in vacanza, una ad una festa, e una un po’ più provocante sul letto in cameretta; in fondo mi potevo servire unicamente di quelle immagini per sedurre. Descrizione: “non vado coi fasci, sto aspettando la rivoluzione”. Una descrizione che rivelasse il mio essere una donna forte e soprattutto allontanasse gli inevitabili personaggi sessisti, misogini e di destra che pullulano sovente in queste applicazioni.

Iniziai a scorrere i profili, e la massa mascolina, primordiale, di primati alla ricerca di un buco per non lasciare che la decadente specie di chi li ha creati cessi finalmente di esistere, era disgustosa.

Le descrizioni, in perfetta coerenza con le foto, davano una forma scritta e vagamente decifrabile ai richiami alle femmine di animaletti di sesso maschile in calore, pronti a tutto per definire il loro senso di permanenza sul pianeta terra, l’atto riproduttivo.

Tipo questo Gino, carabiniere di trent’anni. “Mi definisco solare, odio le persone false, scorpione ma non pungo, dopo la tempesta c’è l’arcobaleno, forza Napoli, cerco una relazione seria. Dimmi di che segno sei.” Ecco, questo è il genere di coglione sbirro fascista col quale uscirei solo per correggergli l’italiano e ruttargli in faccia.

Dopo un’oretta che avevo lasciato il telefono sul tavolo, lo ripresi, lo accesi e vidi la mia schermata home affogare sotto la sopraffazione di un oceano di matches e relativi messaggi. La quantità di casi disagiati e la qualità dei disagi a cui l’avvento di Internet ha saputo dare voce è sterminata. E la miriade di messaggi ricevuti sembrava parlare chiaro, all’unisono, e dire: la civiltà umana sta giungendo alla fine. Mi domandai se gli stessi che utilizzano certi approcci in rete poi abbiano il coraggio di impiegarli nella vita reale. Ho i miei dubbi. D’altronde questo mondo tecnologico e tecnocratico, dove il social ha sostituito il sociale, le relazioni umane, e in particolare la sessualità e l’affettività, in fondo si basano su un sentimento di paura. La tecnologia ha creato un’enorme zona di comfort, dove ogni io solo e affranto può rifugiarsi per non affrontare la realtà e le relazioni sociali. La mancata conoscenza dell’altro attraverso lo scambio reale, nella vita concreta e quotidiana, ne comporta l’ignoranza e dunque la paura. Quando poi, per ragioni naturali e di necessità di rientrare in uno schema socio-famigliare borghese, ci si riavvicina a quell’altro lo si fa sempre con l’idea che vi sia una costante minaccia ignota, come l’abbandono o il rifiuto. I risultati di questo tipo di paura nelle persone sono molteplici. Da una parte c’è la depressione e la solitudine autoindotta, dall’altra c’è l’odio verso l’altro, sino alla violenza.

L’unica soluzione per riportare i rapporti umani alla normalità è tornare alla normalità, ossia quella condizione che gli esseri umani hanno sperimentato prima dell’avvento della tecnocrazia. Insomma, tornare a educarsi all’affettività attraverso il rapporto reale con l’altro e non per mezzo di pornografia, stereotipi di genere sui social o con un altro dall’altra parte di uno schermo protettivo.

Ma tornando a noi. La quantità di bassezze o di messaggi dall’intenso gradiente di superficialità apparsa nella mia cartella messaggi era enorme. Dai messaggi dove mi si chiedeva di che segno zodiacale fossi, a quelli composti da lunghi papiri biblici privi di punteggiatura e in un italiano pressoché incomprensibile. Fino a quelli in cui mi si chiedevano foto intime, oppure quelli che volevano arrivare subito al dunque senza nemmeno prima passare per un caffè. Ribadisco, una massa inqualificabile.

Tra questi però vi era anche qualche raro messaggio interessante, probabilmente scritto da quell’altro che io andavo cercando, ossia qualche altra vittima come me di questo sistema del progresso-regresso. Ecco un ragazzo, ad esempio, che mi manda questo messaggio esilarante:

“In questo momento, mentre ti scrivo, Lidia, ho letteralmente un Lenin appeso al muro con una bandiera dell’Urss, che controlla che non ti scriva qualcosa anche di vagamente di destra. Fatta questa premessa ideologica. Hey, ciao, come stai?”

Con lui forse poteva esserci speranza. Un ragazzo di ventiquattro anni, di sinistra, un intellettuale, pareva essere molto colto e interessante. Sentivo di dovergli dare una possibilità e così gli ho risposto. Parlammo per giorni di quanto il mondo fosse grande, di come il reale potesse avere miriadi di sfaccettature e di quanto valesse la pena continuare a vivere nonostante le turpi notizie quotidiane e la società umana sempre più destinata al baratro.

Era da tempo che non interloquivo con un uomo così intellettualmente completo e complesso. Ogni nostra conversazione non voleva concludersi ed ogni mia frase si completava nella sua. Dopo qualche giorno, prese coraggio e mi chiese di uscire. Volevo vederlo, volevo dargli un volto, ma chi era questo essere tanto interessante? Non mi restava che incontrarlo e scoprirlo.

III

Caro il mio lettore, tu sai già il finale, vero? I due ragazzi si incontrano in un bar, incominciano a parlare tra loro, senza mai finire compiutamente un discorso perché ogni digressione è percepita come vitale. Devono raccontarsi tutto ciò che non hanno potuto dirsi per vent’anni delle loro vite. E non importa se salta la coerenza tra un discorso e l’altro, tra una frase e una risposta, tra una principale e la relativa subordinata. L’importante ora per loro è dirsi con mille perifrasi: sei tu ciò che cercavo fin dai primi vagiti su questa terra.

Finita la serata, tornano a casa con l’enorme voglia di rivedersi, e si scambiano subito un paio di messaggi in cui si promettono un secondo appuntamento al più presto. Dopo qualche giorno, si rivedono nello stesso bar. Questa volta si parlano poco perché arrivano a percepire ciò che Roland Barthes spiegava in modo magistrale in un suo famoso saggio: l’atto locutorio nel linguaggio amoroso diventa un’accozzaglia di tautologie quando dobbiamo spiegare che cosa proviamo alla persona che amiamo. Si dirà: ti amo perché ti amo, e non c’è altro che io possa dire, provo un’idea platonica che non posso spiegare a parole. Così, le persone, e anche i nostri due ragazzi, si baciano, perché è l’unico modo in cui possono comunicare il sentimento in corso: le parole nel linguaggio amoroso sono quasi bandite. Infine, fanno l’amore. Forse, nella stanza di lui, sotto il quadro di Renzi al posto di Lenin. Differenza che lei non noterà mai, se non quando ormai non sarà rimasto altro che riderne.

Ma caro il mio lettore, questo è il finale a cui ti ha abituato la letteratura del passato, e poi la sistematica reiterazione degli schemi narrativi già noti di Netflix, Sky, i reel di Istangram o i video di TikTok. La verità è che nel mondo moderno queste storie non hanno più questi finali. Infatti, i nostri ragazzi non si sarebbero mai visti. Lei si sarebbe spaventata dell’arrivo dell’appuntamento con lui, con la stessa intensità con la quale era all’inizio eccitata nell’idea di vederlo. Lui, allo stesso modo, di fronte alle ripetute scuse di lei avrebbe desistito dall’insistere abbastanza presto. Avrebbero continuato a rimuginare sull’accaduto, finché la storia non si sarebbe amalgamata a quella linea appiattita che possiamo scorgere girandoci indietro per strada, sentendone quel silenzio che può ancora farci provare le sensazioni del sentimento passato, ma non restituirci il motivo da cui era scaturito. Si sarebbero dimenticati l’uno dell’altra, avrebbero cercato di andare avanti ma non avrebbero trovato altro sulla loro strada se non rimpianti e la vaga sensazione di aver mancato ad un appuntamento.

Lui si sarebbe rassegnato, come tanti altri, e avrebbe accettato di vivere di sotterfugi per andare avanti. Si sarebbe più volte ubriacato alle feste dell’Unità, avrebbe accresciuto il suo ego fino al parossismo più assurdo vantandosi della sua intelligenza e dei frutti professionali da questa scaturiti.

Lei avrebbe continuato a vivere nell’ombra di quell’unica relazione con Alfredo. Poi, come tante altre sue coetanee, avrebbe incominciato ad andare dallo psichiatra, prendere psicofarmaci, e sopportare tutta una serie di torture autoinflitte tipiche dei single di una certa età, come la palestra, yoga, il club del libro, corsi di preparazione di risotti o di fabbricazione di pacchiani braccialetti, vagamente freak. Si sarebbe detta: “ho scelto la carriera e ho dovuto sacrificare tutto il resto”. Tutto il resto che in realtà avrebbe potuto non sacrificare, e in quel resto c’era anche la felicità. Perché l’amore, caro il mio lettore, non è solo patriarcato, anzi, il vero amore in realtà non lo è affatto. Il vero amore è felicità, gioia, comunione di una stessa terribile sorte, la morte, con l’altra metà. Il tempo da spartire con l’altro non è mai vano, nemmeno se si tratta di un’intera vita.

Eppure, entrambi avrebbero continuato ad avere profili Instagram pieni di followers, likes, con le loro immagini perfette ed impeccabili. Avrebbero continuato a sperare che prima o poi uno di quei likes avesse cambiato la loro vita per sempre, ma caro il mio lettore, ciò non sarebbe mai avvenuto perché dall’altra parte di quegli schermi c’erano persone nella medesima situazione, che attendevano il medesimo accadimento. Dunque, caro lettore, destati, tu che puoi, tu che hai sentito questa storia che potrebbe essere la tua. Destati, perché Lidia è seduta a fianco a te, sola, e attende solo che tu le dica un “ciao”. E vedrai che, se farai così, questo mondo avrà ancora speranza: torneremo alla normalità. Torneremo a fare l’amore.


https://www.arateacultura.com

https://www.frammentirivista.it/author/vladislavkaraneuski

Vladislav Karaneuski

Redattore di Letteratura e Critica Contemporanea

Rispondi

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.