“Le ceneri di Gramsci”: una proposta di lettura attraverso la filosofia della memoria

Un paese senza memoria Pasolini adduce tre colpe alla generazione dei padri, di cui sente di far parte: le responsabilità di un regime fascista, clerico-fascista e consumista, ossia del fascismo <<sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove>>[1]. Ora, è improbabile che l’autore si percepisca quale colpevole in prima persona dell’ascesa del regime mussoliniano, dal momento che nasce nel marzo del ’22, quando mancano ormai pochi mesi alla marcia su Roma. Per questo motivo, e poiché i più recenti sistemi socio-politici e antropologici che menziona sono evoluzioni formali del totalitarismo degli anni venti e trenta, prima di indagare le ragioni per cui il poeta attribuisce a sé e alla sua generazione la colpa di clerico-fascismo ed età dei consumi, ci si deve domandare in che senso il poeta affermi di soffrire la responsabilità del fascismo in generale. Nello scritto I giovani infelici, in Lettere luterane, Pasolini associa la tragedia greca alla contemporaneità, poiché la legge sembra essere la stessa: le colpe dei padri si trasmettono fatalmente sui figli dei tiranni come sui giovani del suo tempo, e per questo l’autore li condanna senza nessuna remora. Si ricordi a tal proposito il celeberrimo suo schieramento a favore delle forze dell’ordine in occasione delle rivolte studentesche del ’68, motivato dallo stesso disprezzo nei confronti dei rivoluzionari, figli del consumismo e grembo della buona borghesia. A proposito dei giovani, l’autore scrive: <<Sono regrediti – sotto l’aspetto esteriore di una maggiore educazione scolastica e di una migliorata condizione di vita – a una rozzezza primitiva>>[2]. La condanna di Pasolini è in realtà lo stigma di un’intera generazione di italiani, che comprende padri e figli allo stesso momento. Infatti, in una certa misura, se ai primi si può accusare l’inazione e la passività di fronte all’ascesa dei regimi clerico-fascista e consumista, secondo il poeta, la colpa del fascismo in generale dovrebbe gravare su tutti gli italiani, reduci e giovani, proprio in quanto tali. In questo senso, la responsabilità della nascita di un regime oppressivo dovrebbe essere intesa come un peccato originale, anche per coloro che non sono stati coscienti negli anni venti e trenta. Non tutti gli italiani hanno però la coscienza di Pasolini, né una coscienza del passato: per i più il fascismo non insegna né dà lascito, dunque eccolo ripetersi nel presente, sotto forma di superamento, nelle sue nuove silenziose evoluzioni, e, come tali, più forti. <<La colpa dei padri dunque non è solo la violenza del potere, il fascismo. Ma essa è anche: primo, la rimozione dalla coscienza, da parte di noi antifascisti, del vecchio fascismo, l’esserci comodamente liberati della nostra profonda intimità (Pannella) con esso (l’aver considerato i fascisti <<i nostri fratelli cretini>>, come dice una frase di Sforza ricordata da Fortini); secondo, e soprattutto, l’accettazione – tanto più colpevole quanto più inconsapevole – della violenza degradante e dei veri, immensi genocidi del nuovo fascismo>>[3]. La colpa degli italiani, antifascisti poiché di una nazione rifondata su quei valori, consiste in un abuso della memoria, ovvero in un uso sregolato e nocivo di essa. Secondo Pasolini, di questa sregolatezza è icastica la retorica celebrativa della Liberazione, ossessivamente applicata dai nuovi partiti al potere e sostenuta a maggior ragione dalla Democrazia Cristiana, partito di una Chiesa con un passato fascista[4], e dunque bisognosa di riconquistare la fiducia del popolo. Secondo gli studi di Tzvetan Todorov, l’abuso della memoria si verifica nel momento in cui non si è in grado di trarre alcun tipo di insegnamento dal passato, in genere o perché lo si tratta alla stregua di un trascorso indelebile, che si deve a tutti i costi ricordare, o perché ci si distanzia da esso definitivamente, recuperandone arbitrariamente solo i ricordi utili a lavarsi la coscienza. Si può parlare di memoria esemplare del passato quando da esso il singolo o la collettività riescono a trarre un exemplum, un insegnamento valido per il presente; viceversa, si chiamerà una memoria letterale se l’avvenimento recuperato attraverso la rimemorazione resta un fatto intransitivo, insuperabile e sottomette il presente[5]. Applicando la filosofia della memoria al pensiero pasoliniano, si può affermare che, secondo Pasolini, l’Italia conserva del proprio passato antifascista una memoria letterale, poiché non trae dalle esperienze di Liberazione alcun tipo di lezione etica, dato che, come si ha avuto modo di constatare riguardo al tema dell’infuturarsi del passato nel presente nelle Ceneri di Gramsci, il fascismo si è perpetuato dopo una sua sconfitta solo formale. Come ripeterà lo stesso autore in Scritti corsari, l’Italia è un paese senza memoria, <<in cui tutto cambia per restare com’è, in cui tutto scorre per non passare davvero>>. Infatti, un abuso in senso letterale del mito antifascista, celebrato ricorsivamente senza assorbirne insegnamenti morali, prevede parallelamente l’oblio del proprio passato fascista; un atto volontario mirante a ripulire le coscienze, un autoconvincimento d’essere partigiani in nuce, vittime del passato, di non avere a che fare con i propri <<fratelli cretini>> autoritaristi. La cieca fede nel tramonto definitivo del totalitarismo mussoliniano avrebbe così indotto un’intera generazione di italiani a dimenticare di esserne stati i responsabili – attivi o passivi che fossero –, lasciando tutto alle spalle e cogliendo l’occasione di costituzione di una repubblica dichiaratamente antifascista per votarla e sentirsi così meritevoli d’un perdono bastevole a nascondere i sensi di colpa alla coscienza. Se però il fascismo non lascia insegnamenti, i suoi orrori si perpetuano immediatamente nella storia a seguire. Ne sono un esempio le discriminazioni odierne, lo stragismo nero e rosso degli anni ’70, lo stesso Pasolini. L’autore sperimenta i lasciti dell’autoritarismo direttamente sul suo corpo, poiché, oltre alle innumerevoli condanne subite, è vittima di pestaggi e violenze per tutta la vita – anche a causa della sua omosessualità – e viene investito a morte presso l’idroscalo di Ostia agli albori del novembre del ’75. Nell’Italia del secondo dopoguerra non c’è spazio per diversità e verità scomode. In una formula, per Pasolini i regimi clerico-fascista e consumista sono il fascismo degli antifascisti. <<Ebbene, a questo punto mi farò definitivamente ridere dietro dicendo che responsabili di queste stragi siamo anche noi progressisti, antifascisti, uomini di sinistra. Infatti in tutti questi anni non abbiamo fatto nulla: perché parlare di <<Strage di Stato>> non divenisse un luogo comune, e tutto si fermasse lì; (e più grave) non abbiamo fatto nulla perché i fascisti non ci fossero. Li abbiamo solo condannati gratificando la nostra coscienza con la nostra indignazione; e più forte e petulante era l’indignazione più tranquilla era la coscienza>>[6]. Comizio, quarto componimento in ordine di comparsa nelle Ceneri di Gramsci, rappresenta in modo esemplare i nuovi fascisti e la gratificazione della coscienza che si guadagnano attraverso lo svuotamento della memoria del proprio passato di responsabili. Il poemetto descrive l’avvenire di un comizio fascista, e a certificarlo è la presenza di alcune bandiere italiane provviste della fiammella simbolica; eppure, Roma è muta intorno, e nel testo compare uno <<sguardo fraterno>>, Guido, morto da quasi nove anni dal momento di composizione dell’opera (1954), precisamente nell’ottobre del ’45. Risulta dunque chiaro che Pasolini stia descrivendo un sogno, oppure un episodio reale che ha potuto arricchire servendosi degli strumenti della lirica.           […] E guardo, ascolto. Roma intorno è muta: è il silenzio, insieme della città e del cielo. […]                                                                                                            (PPP – Comizio)                                   […] Tra i clamori cammino muto, o forse sono muti essi, nella tempesta che ho nel cuore.                                                                                       (PPP – Comizio) Guido rappresenta una vittima sacrificale morta due volte in vano, dacché il nazifascismo che ha cercato di combattere è ancora presente, e poiché egli è stato ucciso dagli stessi antifascisti che sono i fascisti del dopoguerra[7]. Per Pasolini, quindi, la figura del fratello è icastica dell’intero componimento, che infatti palesa ancora una volta il congelamento di un oscuro passato nel presente: alcune bandiere italiane, presumibilmente di un semplice comizio – forse significativamente celebrativo dell’Unità d’Italia o della Liberazione – diventano fasciste; le camicie nere non rispondono ad alcuna esortazione (<<Non risuona voce su queste grida>>): sembrerebbe dunque che la folla si sia riunita senza che fosse sollecitata da richiami, ovvero, metaforicamente, senza ricordare il regime stesso. Si è detto che la memoria del fascismo è volentieri evitata dagli antifascisti: proprio in virtù di ciò è possibile che una semplice folla di borghesi diventi, nell’immaginazione del poeta, una piazza di camicie nere. Ecco chi sono gli esemplari vivi, vivi, di una parte di noi che, morta, ci aveva illuso d’esser nuovi – privi d’essa per sempre. […]                                                                                                               (PPP – Comizio)                           […] La memoria era dunque così smorta e sottile da non ricordarli? […]                                                                                                                 (PPP – Comizio) Anche gli accorgimenti retorici e le singole espressioni in versi suggeriscono il motivo, topico nelle Ceneri di Gramsci, dell’infuturarsi del passato in un presente che si congela: <<un greve e antico gelo preme / sui muri preziosi, fatti mesti>>; <<Resto in piedi tra questa folla quasi / il gelo>>; <<Non è l’aspetto / di gente viva con me, questo, nei / suoi visi c’è un tempo morto che torna>>; <<Mendicare un po’ di luce per questo / mondo rinato in un oscuro mattino?>>. Anche gli ossimori sono frequenti: <<Questi visi giovanili / precocemente vecchi>>, <<vili / espressioni di coraggio>>, <<umiliante e solenne>>. Se il fascismo degli antifascisti è silenzioso e invisibile, a tal punto da celarsi dietro ordinari comizi e mascherarsi da bandiera italiana, in virtù della nazione rifatta, l’uomo <<non sa che luce ha in sé>>. Questo stesso tema è anticipato in Canto popolare, componimento più precoce (1952-53): in esso, però, la chiusa suggerisce una diversa interpretazione riguardante il non sapere la sua luce proprio del popolo. Anzitutto un chiarimento: quando il poeta fa riferimento al “popolo”, egli intende i sottoproletari. L’autore li rappresenta in condizioni miserevoli e disperanti – s’intende in Ragazzi di vita e in altri scritti, oltre che negli stessi componimenti delle Ceneri di Gramsci –, in contrapposizione implicita con la rappresentazione eroica che si vorrebbe del popolo e dello spirito nazionale nel PCI di Togliatti[8]. La dura posizione critica presa da Pasolini nei confronti del suo vecchio partito è inoltre esplicitata in Una polemica in versi (1956), poemetto anch’esso appartenente alla raccolta poetica del ’57: il Partito Comunista sarebbe colpevole, infatti, di non aver ammesso al popolo le colpe guadagnate attraverso l’inazione nei confronti del governo clerico-fascista[9]; inazione che di lì a poco avrebbe comportato l’omologazione e il conseguente genocidio culturale – della cultura sottoproletaria in primis, insieme alla sua passionalità. […] ma il vostro dolore di non essere più sul primo fronte, sarebbe più puro, se nell’ora in cui l’errore, anche se puro, si sconta, aveste la forza di dirvi colpevoli.                                                                      (PPP – Una polemica in versi) Così, se l’uomo borghese di Comizio <<non sa che luce ha in sé>> poiché non è cosciente del proprio passato fascista – e dunque il fascismo perpetua con lui –, il popolo <<non sa che luce ha in sé>> perché il PCI non lo disillude. Eppure dai seguenti versi sembra che la memoria abbia a che fare anche con quest’ultimo. Nella tua incoscienza è la coscienza che in te la storia vuole, questa storia in cui Uomo non ha più che la violenza delle memorie, non la libera memoria… E ormai, forse, altra scelta non ha che dare alla sua ansia di giustizia la forza della tua felicità, e alla luce di un tempo che inizia la luce di chi è ciò che non sa.                                                                                      (PPP – Canto popolare) Se di primo acchito si potrebbe pensare di cogliere l’<<incoscienza>> di cui parla Pasolini quale un rimando all’ignarità del popolo nei confronti della situazione politica corrente, il riferimento esplicito a una contrapposizione tra <<violenza delle memorie>> e <<libera memoria>> specifica il senso dell’intero passo e chiarisce l’entità della coscienza imposta dalla nuova Storia. Nel secondo dopoguerra, per “fare la nazione” è opportuno, se non necessario, un ancoramento alla memoria collettiva di valori condivisi, spesso determinato dalla celebrazione dei caduti per essi immolatisi, a cui l’intera patria si rivolge riunendosi per porgere riconoscenza. La violenza di una tale usanza consiste nell’ossessiva celebrazione del sangue versato, dovere capillarmente diffuso in un’Italia … Leggi tutto “Le ceneri di Gramsci”: una proposta di lettura attraverso la filosofia della memoria